Dicono di noi

23

Aprile
2016

(COME) FARE EDUCAZIONE ALLA LEGALITA'

EMANUELE LAURIA - 23/04/2016 (Repubblica)

Manifesto per la nuova antimafia: “Equidistante da pm e politici”

Dopo gli scandali dell'ultimo anno, l'iniziativa di un gruppo di intellettuali: "C'è l'esigenza di voltare pagina, di un movimento dai piedi scalzi"

Un manifesto per una nuova antimafia. Non quella dei pennacchi, delle solidarietà ai magistrati, delle associazioni bagnate dai fondi pubblici, del collateralismo con la politica. Un'antimafia che rinasca dalle ceneri di se stessa, che ridia credibilità a un movimento investito da scandali e inchieste giudiziarie. È questo l'obiettivo al quale sta lavorando un gruppo di intellettuali, esperti e studiosi del fenomeno, mossi dal rischio che la polvere che quest'anno ha risucchiato tanti eroi della legalità possa cancellare anche l'anima della rivolta culturale nata negli anni Novanta.

Al manifesto, che nasce da un'idea del giornalista di Repubblica Attilio Bolzoni, sta lavorando l'ex presidente della commissione Antimafia Francesco Forgione, che ha già contattato alcuni noti esponenti di questo mondo, come Giuseppe Di Lello, ex componente del pool investigativo di Antonino Caponnetto. L’ex presidente della commissione Antimafia chiama a raccolta altri “pionieri”: a i nomi di Nando Dalla Chiesa, Salvatore Lupo, Isaia Sales, Rocco Sciarrone, Franco La Torre. E c'è già un traguardo per la presentazione dell'iniziativa: il 21 giugno, l'inizio dell'estate, preferita al 23 maggio, anniversario della strage di Capaci, per evitare strumentalizzazioni.

Il progetto è quello di costituire un fronte trasversale, che metta insieme radicali e garantisti, che vada oltre il modello dell'associazionismo sinora sperimentato. E che, per dirla con le parole di Forgione, "possa discutere, confrontarsi e anche scontrarsi ma non perda più la bussola dell'autonomia culturale e della critica del potere". "Un'antimafia dai piedi scalzi", dice il vicepresidente della commissione Antimafia Claudio Fava. Da abbattere c'è "l'antimafia che truffa, che corrompe e si fa corrompere", dice ancora Fava, "che fa affari, che finisce sotto inchiesta ma in Sicilia, grazie al sostegno della Regione di Crocetta, rimane alla guida delle Camere di commercio".

Ma un cambiamento è già in atto dopo i casi Montante, Helg, Saguto, dopo le inchieste su Gemelli e Lo Bello, dopo l'ultima bufera che si è abbattuta su uno dei simboli più veraci dell'antimafia qual è Pino Maniaci? Difficile dirlo. Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale a Palermo e Roma, lancia una provocazione: "Aboliamo il termine antimafia. Perché l'antimafia, come impegno specifico, non esiste: il contrasto al malaffare, l'azione di prevenzione, dovrebbero essere riflesso di una normale etica pubblica. Bisogna ripartire anzitutto colmando il vuoto di analisi e riflessione attorno al fenomeno mafioso. Gli stessi magistrati ripropongono a volte luoghi comuni ".

PAOLO MIELI - 07/04/2016 (Corriere della Sera)

Antimafia, la profezia di Sciascia

È evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. Non si tratta di accuse generiche, si possono fare nomi e cognomi

Adesso dovremmo tutti riconoscere che il pericolo era stato ben intravisto trent’anni fa da Leonardo Sciascia per quanto è ormai evidente che il malaffare siciliano ha adottato il codice di camuffarsi dietro le insegne dell’antimafia. E, se il presidente di Confindustria in uscita, Giorgio Squinzi, volesse fare un gesto di cortesia nei confronti del suo successore, Vincenzo Boccia, utilizzerebbe gli ultimi giorni del suo mandato per convincere il suo proconsole in Sicilia Antonello Montante — grande sostenitore della lotta a Cosa Nostra ma da oltre un anno indagato per concorso esterno in associazione mafiosa — a farsi da parte. E, nel contempo, ad abbandonare l’ingombrante incarico di delegato «per la legalità» di tutti gli industriali italiani. Non sono del tutto chiare le vere ragioni che hanno indotto Squinzi fin qui (ancora domenica sera, intervistato da Milena Gabanelli) a non esortare Montante ad affrontare la sua vicenda giudiziaria senza coinvolgere l’organizzazione che rappresenta. Ma sarebbe nobile da parte sua lasciare al presidente che verrà dopo di lui una Confindustria simile a quella di dieci anni fa quando Ivan Lo Bello, proprio in Sicilia, avviò una campagna di pulizia che ebbe un’eco di approvazione in tutto il Paese.

Eviteremmo così grandi imbarazzi come quello in cui si sarebbe potuto trovaredomattina il capo dello Stato, Sergio Mattarella, il quale, in visita ufficiale a Noto per rendere onore allo straordinario restauro della Cattedrale, dovrà affidarsi a un rigidissimo protocollo che — salutati il governatore della Regione Rosario Crocetta e il sindaco Corrado Bonfanti — gli eviti di stringere le mani di qualche rappresentante della politica o dell’imprenditoria siciliana. Personaggi «a rischio» anche (e forse soprattutto) nel caso si presentino avvolti nelle bandiere della lotta ai padrini.

Cosa sta succedendo in Sicilia? I campioni dell’antimafia «non servono più», lo hadetto persino Leoluca Orlando: «Chi si ostina a voler rimanere tale, spesso si rivela poi un impresentabile o un corrotto». Stiamo parlando di un fenomeno gustosamente descritto da Nando Dalla Chiesa: «A un convegno si presenta il tale magistrato che fu “impegnato nella trincea di Palermo ai tempi di Giovanni Falcone”. Seguono applausi… che cos’abbia fatto non si sa, magari complottava contro Falcone. Il tal’altro è invece un freelance minacciato dalla mafia e dunque censurato (magari ha solo fatto un dvd o un libro fallimentare): subito invitato nelle scuole, anche a pagamento. Un nullasapiente gioca a spararla più grossa di tutti, delirando di trame e di complotti? È l’unico che ha il coraggio di dire le cose come stanno, meno male che c’è lui. E poi il commerciante che pretende di essere in pericolo di vita e se la prende con gli “antimafiosi da tastiera” che non solidarizzano abbastanza, salvo scoprire che paga un delinquente per sparargli contro il chiosco». Giancarlo Caselli, a proposito della legge per la gestione dei beni confiscati ai mafiosi, ha constatato che «è venuta delineandosi anche un’antimafia degli affari e delle partite Iva, un mestiere, un sistema di relazioni opache». Raffaele Cantone si dice preoccupato per alcuni «fatti oggettivi»: il «coinvolgimento in indagini giudiziarie di soggetti considerati icone dell’antimafia»; le «vicende che hanno sfiorato magistrati di primissimo livello per i quali si credeva che il contrasto alle mafie fosse un valore»; la «questione dei beni confiscati e il fatto che sia stata messa in discussione persino Libera», l’associazione di don Luigi Ciotti.

Tutti coloro che si occupano di mafia da vicino sanno che le cose da tempo stannoproprio così: Rosy Bindi ha messo questo tema all’ordine del giorno della Commissione da lei presieduta; lo storico Salvatore Lupo (assieme a Giovanni Fiandaca) ne ha cominciato a scrivere con coraggio. E già si pubblicano libri che denunciano questi camuffamenti: «Contro l’Antimafia» di Giacomo Di Girolamo; «Antimafia Spa» di Giovanni Tizian e Nello Trocchia; «Le trappole dell’Antimafia» di Enrico del Mercato ed Emanuele Lauria. Lo studioso Rocco Sciarrone (in «Alleanze nell’ombra») dimostra, dati alla mano, che tutte ma proprio tutte le imprese della connection mafiosa in provincia di Palermo si erano «travestite» con una pronta adesione ad associazioni antiracket.

Accuse generiche? No. Si possono fare nomi e cognomi. Vincenzo Artale titolare diun’azienda di calcestruzzo che da dieci anni era salito alla ribalta come grande accusatore di mafiosi e, un anno fa, era stato eletto in un ruolo dirigente dell’associazione antiracket del suo paese, è stato arrestato in provincia di Trapani per tentata estorsione «aggravata dal favoreggiamento alla mafia» (quella di Mazara del Vallo). I costruttori Virga di Marineo, a dispetto del loro sostegno alle associazioni nemiche di coppola e lupara e dei riconoscimenti ottenuti da associazioni del calibro di «Addio pizzo», di «Libero futuro» e financo dal Fai, sono stati accusati di essersi arricchiti con il sostegno del mandamento di Corleone. Mimmo Costanzo anche lui grande paladino antimafioso, è stato arrestato nell’inchiesta sulla corruzione Anas ed è al centro di indagini per i suoi rapporti con la cosca catanese. Idem Concetto Bosco Lo Giudice finito, con lo stesso genere di imputazioni, ai domiciliari. E se non è mafia, sono comunque storie di natura consimile. Carmelo Misseri imprenditore di Florida in provincia di Siracusa («ribellarsi è giusto», ripeteva in pubblico) pagava tangenti alla Dama Nera dell’Anas, Antonella Accroglianò. E, a proposito di Siracusa, c’è l’imbarazzante caso di una Confindustria locale guidata dapprima da Francesco Siracusano (dimissionato per affari sospetti), poi commissariata con Ivo Blandina ( rinviato a giudizio per un’allegra gestione di fondi con i quali aveva acquistato uno yacht) e infine con Gianluca Gemelli ( il «marito» di Federica Guidi travolto, assieme alla compagna ministra, dalla vicenda Total). Il presidente della Camera di Commercio di Palermo Roberto Helg anche lui proclamatosi grande combattente contro «la piaga delle estorsioni», è stato condannato a quattro anni e otto mesi dopo che era stato filmato mentre intascava una tangente di centomila euro da un poveretto che voleva aprire una pasticceria all’aeroporto del capoluogo siciliano. E tramite il «caso Helg» si scopre una parentela tra le vicende siciliane di Confindustria e quelle di Unioncamere, altra associazione in cui si notano sintomi di diffusione dell’infestazione qui descritta. Per non farsi mancare nulla, Montante è anche presidente Unioncamere Sicilia e della Camera di Commercio di Caltanissetta. Se Squinzi volesse favorire il debutto del suo successore, potrebbe trovare l’occasione (che so?) di pronunciare a freddo un «elogio di Sciascia». Montante capirebbe l’antifona e ne trarrebbe le conseguenze. Forse.

REDAZIONE - 06/06/2015 (SiciliaInformazioni)

A proposito di buona scuola: come si insegna l’antimafia

Una volta l’anno gli studenti delle scuole italiane si occupano di mafia e di crimine organizzato. Avviene nel giorno dell’anniversario dell’attentato di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta.

E gli altri giorni, a proposito di buona scuola, come si insegna l’antimafia? Qualcosa è cambiato, ma fino a che punto? Non c’è spazio per questi temi. Governo e sindacato sono impegnati su altri fronti: l’autorità dei presidi, l’autonomia dei prof, la precarietà.

Che cosa sanno veramente i ragazzi delle mafie, della loro evoluzione, del potere che riescono ad esercitare nella società e nelle istituzioni? Non siamo certo all’anno zero, ma a che anno siamo?

La scuola occupava d’altro: gli eroi del Risorgimento, l’epopea del carroccio, le virtù dell’Impero romano e dell’antica Grecia. Non che non fosse utile tutto ciò, ma il sapere restava lontano dalle brutte vicende di tutti i giorni che ottenevano una sorta di immunità, una specie di lasciapassare dello spirito impegnato altrove dalle storie di santi ed eroi. L’istruzione scolastica concedeva di guardar lontano, alla grande storia del popolo nostro, alle belle arti, ma non concedeva di guardar vicino a ciò che accadeva davanti al portone di casa. Una presbiopia casuale o ben meditata?

La memoria è fatta ancora oggi di visi familiari, di maestri e professori benevoli e scrupolosi, ma per nulla partecipi della vita sociale, figli di una scuola – a loro vol­ta – ben più omertosa di quella che ebbi la ventura di frequentare. Dalle elementari al ginnasio, al liceo e all’università, non c’è episodio, uno solo, che consenta il ricordo di una informazione, una discussione, un semplice dialogo sulla mafia siciliana. E di­re che quegli anni – dal dopoguerra al ’50 e giù fino al ’60 – attraversarono come una bufera la storia siciliana con la mattanza dei sindacalisti uccisi dalle lupare mafiose, le stragi del bandito Giuliano, fino ai cadaveri dei poliziotti di Ciaculli, a Palermo.

Mi insegnò di più – nel bene e nel male - il film di Pietro Germi In nome della legge che molti anni di scuola, sulle mafie del Paese nostro e d’altri luoghi. Il crimine – quello di mafia – l’ho visto così sotto una luce particolare, come ammantato da un’aura. Seppur deplorevole, il delitto di mafia aveva diritto all’onore delle armi, essendo compiuto da uomini d’onore, che tenevano in gran conto la parola, l’amicizia, la lealtà ed esercitavano sempre e comunque una certa forma di giustizia.

Il capomafia non era un semplice appaltatore di delitti come l’Innominato dei Promessi Sposi – ma il capo del paese, un capo conosciuto e rispettato, che dispensa consigli con saggezza, concilia conflitti con moderazione, ha manie­re, gesti, parole che pretendono rispetto. La sua giustizia era provvista di sanzioni, esercitata da uomini veri, a differenza di quella formale affidata al dimesso maresciallo dei carabinieri o all’ambiguo pretore onorario, ineluttabilmen­te coinvolti nelle vicende locali e da esse sequestrati.

Da molti anni la scuola non è più unica sorgente del sapere né fonte primaria dell’informazione: i mezzi di comunicazione la relegano spesso ai margini, o quasi, del percorso educativo. Ciò le impedisce di aiutare i giovani a riordinare la folla di informazioni che ricevono e discutere le reazioni che esse provocano. La conseguenza è che prima gli studenti non sapevano a causa dei silenzi e oggi non sanno a causa del rumore prodotto dal bombardamento di notizie.

Fuori dalla scuola, comunque, non va meglio; le conoscenze sulla mafia sono confuse, scorrette, superficiali, influenzate dalla tendenza a romanzare il fenomeno, a fame oggetto di riflessioni di costume, o a mitizzarlo, spettacolizzarlo, o a usarlo nei conflitti tra partiti. Per alcuni tutto – o quasi – è mafia; per altri la mafia è sopravvalutata: per altri ancora «ha il volto delle istituzioni» (sarebbe, cioè, diretta da uomini dello Stato) o è solo delinquenza organiz­zata. Stato ed antistato, frutto di fantasia e terribile realtà.

I giovani apprendono le gesta delle mafie attraverso immagini di quotidiana atrocità: la radio, la televisione e il giornale sono veicoli di apprendimento privilegiato, ma ogni messaggio che inviano – sia esso contenuto negli spazi destinati all’informazione o in altri contenitori – rappresen­ta soltanto uno dei modi di raccontare la notizia attraverso le immagini, i suoni, le parole, il testo scritto.

Chi ha il compito di educare il giovane destinatario della notizia alla corretta fruizione del messaggio? Quali conoscenze egli possiede per accoglierla consapevolmente ed utilizzarla come momento della sua maturazione, controllandola, discutendola, confrontandosi con essa? Di quali elementi dispone per respingere la slealtà del messaggio e non rimanerne emotivamente soggiogato?

La scuola, oggi, annovera atteggiamenti educativi assai diversi verso i mezzi di comunicazione: li combatte, giudi­candoli diseducativi; rinuncia rassegnata al suo ruolo; semplicemente, li ignora; talvolta se ne serve opportuna­mente, cercando in essi stimoli, incentivi, strumenti per un percorso educativo che soccorra l’apprendimento miglio­rando l’interesse e sveli il processo di formazione della notizia, dei mezzi e degli uomini che la realizzano.

In definitiva, la scuola ha nuovi compiti ma il medesimo ruolo di sempre: strumento di crescita culturale, sociale, civile. Ogni cittadino consapevole, informato, colto, è un potenziale nemico delle mafie.

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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA - 08/03/2014 (Corriere della Sera)

La scuola cattiva è questa


La buona scuola non è solo quella degli edifici che non cascano a pezzi, degli insegnanti assunti e progredenti nella carriera per merito, o delle decine di migliaia di precari (tutti bravi? Siamo certi?) immessi finalmente nei ruoli: obiettivi ovviamente giusti, e sempre ammesso che il governo Renzi riesca a centrarli, visto che specie sui mezzi e i modi per conseguire gli ultimi due è lecito avere molti dubbi. Ma la buona scuola non è questo. La buona scuola non sono le lavagne interattive e non è neppure l’introduzione del coding, la formazione dei programmi telematici; non sono le attrezzature, e al limite - esagero - neppure gli insegnanti. La buona scuola è innanzi tutto un’idea. Un’idea forte di partenza circa ciò a cui la scuola deve servire: cioè del tipo di cittadino - e vorrei dire di più, di persona - che si vuole formare, e dunque del Paese che si vuole così contribuire a costruire.

In questo senso, lungi dal poter essere affidata a un manipolo sia pur eccellente di specialisti di qualche disciplina o di burocrati, ogni decisione non di routine in merito alla scuola è la decisione più politica che ci sia. È il cuore della politica. Né è il caso di avere paura delle parole: fatta salva l’inviolabilità delle coscienze negli ambiti in cui è materia di coscienza, la collettività ha ben il diritto di rivendicare per il tramite della politica una funzione educativa.

La scuola - è giunto il momento di ribadirlo - o è un progetto politico nel senso più alto del termine, o non è. Solo a questa condizione essa è ciò che deve essere: non solo un luogo in cui si apprendono nozioni, bensì dove intorno ad alcuni orientamenti culturali di base si formano dei caratteri, delle personalità; dove si costruisce un atteggiamento complessivo nei confronti del mondo, che attraverso il prisma di una miriade di soggettività costituirà poi il volto futuro della società.

La scuola, infatti, è ciò che dopo un paio di decenni sarà il Paese: non il suo Prodotto interno lordo, il suo mercato del lavoro: o meglio, anche queste cose ma soprattutto i suoi valori, la sua antropologia, il suo ordito morale, la sua tenuta.

Che cosa è diventata negli anni la scuola italiana lo si capisce dunque guardando all’Italia di oggi. Un Paese che non legge un libro ma ha il record dei cellulari, con troppi parlamentari semianalfabeti e perfino incapaci di parlare la lingua nazionale, dove prosperano illegalità e corruzione, dove sono prassi abituale tutti i comportamenti che denotano mancanza di spirito civico (dal non pagare sui mezzi pubblici a lordare qualunque ambiente in comune). Un Paese di cui vedi i giovani dediti solo a compulsare ossessivamente i loro smartphone come membri di fantomatiche gang di «amici» e di follower; le cui energie, allorché si trovano in pubblico, sono perlopiù impiegate in un gridio ininterrotto, nel turpiloquio, nel fumo, nella guida omicida-suicida di motorini e macchinette varie; di cui uno su mille, se vede un novantenne barcollante su un autobus, gli cede il posto. Essendo tutti, come si capisce, adeguatamente e regolarmente scolarizzati. È così o no?

Si illude chi crede - come almeno una decina di ministri dell’Istruzione hanno fin qui beatamente creduto - che a tutto ciò si rimedi con «l’educazione civica», «l’educazione alla Costituzione», «l’educazione alla legalità» o cose simili. A ciò si rimedia con la cultura, con un progetto educativo articolato in contenuti culturali mirati a valori etico-politici di cui l’intero ciclo scolastico sappia farsi carico. Un progetto educativo che perciò, a differenza di quanto fa da tempo il ministero dell’Istruzione, non idoleggi ciecamente i «valori dell’impresa» e il «rapporto scuola-lavoro», non consideri l’inglese la pietra filosofale dell’insegnamento, non si faccia sedurre, come invece avviene da anni, da qualunque materia abbia il sapore della modernità, inzeppandone i curriculum scolastici a continuo discapito di materie fondamentali come la letteratura, le scienze, la storia, la matematica. Con il bel risultato finale, lo può testimoniare chiunque, che oggi giungono in gran numero all’Università (all’università!) studenti incapaci di scrivere in italiano senza errori di ortografia o di riassumere correttamente la pagina di un testo: lo sanno il ministro e il suo entourage ?

All’imbarbarimento che incombe sulle giovani generazioni si rimedia altresì creando nelle scuole un’atmosfera diversa da quella che vi regna ormai da anni. In troppe scuole italiane infatti - complici quasi sempre le famiglie e nel vagheggiamento di un impossibile rapporto paritario tra chi insegna e chi apprende - domina un permissivismo sciatto, un’indulgenza rassegnata. Troppo spesso è consentito fare il comodo proprio o quasi, si può tranquillamente uscire ed entrare dall’aula praticamente quando si vuole, usare a proprio piacere il cellulare, interloquire da pari a pari con l’insegnante. Ogni obbligo disciplinare è divenuto opzionale o quanto meno negoziabile, e l’autorità di chi si siede dietro la cattedra un puro orpello. Mentre su ogni scrutinio pende sempre la minaccia di un ricorso al Tar.

Quando ho sentito il presidente Renzi e il ministro Giannini annunciare una svolta, parlare di riforma, di «buona scuola», ho pensato che in qualche modo si sarebbe trattato di questi argomenti, si sarebbe affrontato almeno in parte questi problemi. E finalmente, magari, con uno spirito nuovo di concretezza, con una visione spregiudicata. In fondo il primo ha una moglie insegnante, mi sono detto, la seconda ha passato la sua vita nell’Università: qualcosa dovrebbero saperne. Invece niente. Prima di tutto e soprattutto i soldi e le assunzioni (bene), ma poi per il resto il solito chiudere gli occhi di fronte alla realtà, i soliti miraggi illusori per cui tutto è compatibile con tutto, per cui l’«autonomia» degli istituti invece di essere quella catastrofe che si è rivelata viene ancora creduta la panacea universale, la solita melassa di frasi fatte e mai verificate. E naturalmente mai uno scatto di coraggio intellettuale e politico, mai una vera volontà di cambiare, mai quell’idea alta e forte del Paese e della sua vicenda di cui la scuola dovrebbe rappresentare una parte decisiva, invece della disperata cenerentola che essa è, e che - ci si può scommettere - continuerà a essere.

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NANDO DALLA CHIESA - 24/12/2013 (LiberaInformazione)

A scuola di buona antimafia

No, proprio la scuola no. Partendo dagli stessi due esempi – Carolina Girasole e Rosy Canale – da cui era partito il sottoscritto per denunciare sabato scorso il “Circo dell’antimafia”, domenica Ernesto Galli della Loggia ha ferrato un duro attacco dalla prima pagina del Corriere contro l`azione svolta dalla scuola italiana nell`educazione alla legalità. Un`azione retorica, ha scritto, fondata sulla precettazione “buonista” degli alunni e del tutto inefficace nella lotta alla criminalità organizzata (che si combatte con magistratura e forze dell`ordine efficienti e inflessibili). E infine costosa. Culmine e sintesi di questa galleria di vizi sarebbe la “carnevalata” della nave della legalità, ossia la nave che, piena di studenti, parte da Civitavecchia e da Napoli per ricordare ogni23 maggio a Palermo, con la strage di Capaci, i giudici simbolo della lotta alla mafia, Falcone e Borsellino. Qui bisogna esser chiari. Il circo dell`antimafia esiste. La retorica di certe forme celebrative pure. Gli alunni in più occasioni servono a riempire sale ufficiali altrimenti vuote. E qualche inutile soldo gira, sempre a favore di esperti immaginari o di improbabili percorsi formativi, dalla Sicilia alla Lombardia. Ma alla scuola, e al suo ormai trentennale impegno sul fronte della lotta per legalità, il paese deve solo fare un monumento. Pur tra mille difficoltà, con tagli crescenti, a volte battendosi contro le diffidenze ambientali, la scuola pubblica italiana ha fatto quel che non hanno fatto l`impresa, la politica, gli intellettuali, le professioni e l’informazione. Si può anzi dire che se il paese ha retto di fronte all`offensiva criminale lo deve a due pilastri: da una parte magistratura e forze dell`ordine, dall`altra la scuola. Decine di migliala di insegnanti hanno dedicato tempo, passione, studi aggiuntivi per fronteggiare un fenomeno che il paese ufficiale non vedeva. Hanno accreditato nella cultura delle nuove generazioni magistrati e poliziotti, invitandoli anche tra ragazzi abituati a chiamarli sbirri. Hanno fatto sentire ai rappresentanti dello Stato in trincea il consenso negato dall`alto.

NELLA SCUOLA si sono così formate generazioni più consapevoli delle precedenti. E forse anche a questo si deve se oggi leve di giovani consiglieri comunali , al sud come al nord, stanno finalmente modificando l`atteggiamento di molti enti locali di fronte alla mafia. O se all`università si trovano studenti eticamente motivati a fare il commissario di polizia o il concorso per maresciallo dei carabinieri. Dirò di più. E` perfino commovente tornare in una scuola venti o trent`anni dopo e ritrovare la professoressa conosciuta ancora giovane, ormai vicina alla pensione, e che tuttora continua a organizzare corsi, giornalini, teatro contro la mafia. Gratis. Senza gloria. E sarebbe bello che proprio queste persone, regolarmente neglette, venissero finalmente e ufficialmente ringraziate dal presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno. Ecco. La Nave della legalità è ogni anno il punto d`arrivo (gioioso e faticosissimo) di questo immenso lavoro. E ha il pregio di indurre chi vi partecipa a dire, come ho sentito dire dai miei studenti, “mi ha cambiato la vita”. E` forse più efficace puntare solo sulle forze dell`ordine e sui magistrati? Certo l`applicazione costante e rigorosa della legge incoraggia lo spirito della lè- galità. Ma è anche vero che quest`ultimo si radica (lo insegnava Tocqueville…) nei costumi civili. Ed è soprattutto vero che se in Italia la legge non viene applicata come vorrebbe (giustamente) Galli della Loggia, è perché l`indolenza delle classi dirigenti, i calcoli elettorali, le complicità politiche e giudiziarie lo impediscono. Da qui la necessità di unire tutte le forze legalitarie per cambiare uno Stato che dovrebbe funzionare in un certo modo ma che in quel modo, disgraziatamente, non funziona. Ci sarà pure una ragione se i magistrati in prima linea hanno sempre assegnato alla scuola, con i suoi tanti ragazzi senza diritto di voto, una funzione fondamentale o se perfino un generale diventato prefetto, uomo per antonomasia della repressione, sentì d`istinto il bisogno e l`utilità di andare a parlare nei licei palermitani. SE ESISTE il circo dell`antimafia, la scuola ne è in genere la negazione; per questo mette sempre più al bando spettacolarità e assemblee oceaniche per approfondire valori e conoscenze, e scongiurare il clima da applauso facile. Insomma, più che essere il bersaglio delle polemiche, oggi la scuola – sì, la famigerata scuola- dovrebbe essere il modello di tutti. Magari l`Italia ne fosse all`altezza.

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AUTORI VARI - 23/12/2013 (Corriere della Sera)

Educare per sconfiggere le mafie

È davvero importante l?autocritica che apre l?editoriale di Ernesto Galli della Loggia sui limiti della cultura dell?antimafia in Italia. La stampa e l?opinione pubblica, secondo l?autore, non hanno saputo vedere in tempo ciò che di falso e corrotto si nasconde dietro alcune delle icone di recente osannate nel dibattito pubblico. È un richiamo che condividiamo e da anni rilanciamo. Ciascuno ha il dovere di essere vigile contro la corruzione che colpisce il nostro Paese in ogni suo snodo, dalla politica alla società civile, dai media e all?impresa, alle associazioni. Vorremmo però invitare stampa e opinione pubblica a evitare di raddoppiare l?errore, sommando a quella mancanza di attenzione un giudizio ottuso che liquida realtà decisive dell?associazionismo antimafia, che danno un contributo concreto a formare giovani generazioni più consapevoli. Per troppo tempo le istituzioni erano state sorde alle tante voci dei familiari delle vittime che chiedevano di «ricordare» e di «far ricordare» i giovani, e le tante iniziative e percorsi didattici che per tutto l?anno scolastico le diverse associazioni contribuiscono a realizzare con il supporto del ministero dell?Istruzione sono un importantissimo risultato per l?educazione alla legalità dei giovani, perché il valore della memoria è imprescindibile. La commemorazione del 23 maggio e le Navi della Legalità organizzate insieme al ministero dell?Istruzione sono il momento conclusivo del percorso di educazione alla legalità che le scuole intraprendono e che permette ai ragazzi di imparare a conoscere storie e persone della battaglia contro le mafie e a comprendere i mille modi in cui sa esprimersi e ferire una cultura criminale. In questi anni, con l?impegno di tanti insegnanti, di tanti volontari, l?energia inesauribile dei ragazzi e il supporto delle istituzioni, si sono raggiunti risultati che meritano attenzione e rispetto. Venga il prossimo 23 maggio 2014, Galli della Loggia, insieme a tutti noi, viaggi accanto a studenti e insegnanti, si faccia raccontare ciò che hanno vissuto nei mesi precedenti. Venga a visitare qualche scuola coinvolta e ad ascoltare i percorsi didattici sulla cultura della legalità che stiamo realizzando, parli con gli studenti, chieda loro se si sentono «precettati». Ci venga a trovare nella sede delle nostre associazioni e fondazioni. Scoprirà luoghi in cui si inventa ogni giorno una via di uscita credibile e costruttiva dalla retorica, in cui si ragiona su come illuminare quei «luoghi silenziosi» in cui si combatte contro il crimine organizzato. Troverà persone che chiedono esattamente quello che chiede lui nell?appello con cui chiude il suo articolo ? più magistrati, più forze dell?ordine e uno Stato presente davvero ? ma che, oltre a esprimere quelle richieste, hanno deciso di impegnarsi ogni giorno per fare in modo che il frammento d?Italia che dipende da loro sia migliore. A pochi giorni dalla morte di Giovanni Falcone, della moglie e degli uomini della sua scorta, in un momento in cui mai come prima il Paese avvertiva l?esigenza di una presenza concreta dello Stato nel contrasto alla mafia, Paolo Borsellino disse: «La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell?indifferenza, della contiguità e quindi della complicità». Quello stesso giorno, un esponente di una delle organizzazioni da sempre impegnate nell?educazione alla legalità, chiese al magistrato: «Cosa possiamo fare noi per la lotta alla mafia?». E Borsellino rispose: «Noi arresteremo i padri, voi educherete i figli».

Nando Dalla Chiesa, Salvatore Calleri, Elena Fava, Rita Borsellino, Fondazione Rocco Chinnici, Centro studi Pio La Torre, Centro studi Paolo Borsellino

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LIONELLO MANCINI - 22/12/2013

Vizi della politica e folklore dell'antimafia

Ci sono alcuni vecchi vizi della politica italiana che nuocciono gravemente
a un’efficace azione di contrasto alla criminalità. Il primo è il vizietto della
spettacolarizzazione, della frasetta a effetto buona per i titoli di giornali, a
volta viziata da palese falsità, ma ben recitata a favore di telecamera; un altro
è il vizio di non riconoscere gli errori commessi né mai di scusarsene.
Un’ennesima dimostrazione di questi vizi, si è avuta nella recente missione
milanese della commissione parlamentare Antimafia, incentrata sull’Expo
2015. Una visita durante la quale decine di Parlamentari in trasferta hanno
svolto diverse audizioni più o meno utili pattinando lievi e compunti tra un
allarme (fondato) per la perdurante assenza di denunce dagli imprenditori,
alla presa d’atto delle collusioni (accertate) con il malaffare, alla (giusta)
elencazione dei risultati già ottenuti.
Fino all’inevitabile battuta del “sarà un Expo mafia-free!”, scandito dal
titolare del Viminale, ignaro o disinteressato alla carenza di uomini addetti
ai controlli o alle perduranti difficoltà burocratiche di chi voglia entrare in
una white list. Una bella frase, come quella pronunciata dal premier a Napoli
nel marzo 2010: “In tre anni sconfiggeremo mafia, camorra e ‘ndrangheta”.
Sempre a Milano, la settimana scorsa, è venuto anche il momento della
incapacità di chiedere scusa, come avrebbe dovuto fare il governatore
lombardo già ministro dell’Interno, Roberto Maroni, invece offeso per
non essere stato chiamato sul palcoscenico, del tutto dimentico di quando
otteneva a forza di andare in tv a dire che Saviano mentiva, che la mafia al
nord non c’era o che se c’era la Lega non c’entrava (Rai 3, novembre 2010).
Sono vizi gravi, anche perché finiscono con il manipolare grandi fette di
società civile creando per esse dubbi eroi, rendendole avide di premi intestati
a eroi veri, appuntando luccicanti medaglie su petti sempre meno selezionati.
Tutto questo agitarsi mediatico e conformista produce una dannosa
spettacolarizzazione dell’impegno civile, che fa sentire assolto il compito a
politici, esperti di talkshow, cultori di specialistiche rassegne, scrittori, attori,
cantori e poeti dell’”anti”.
E quanti ogni giorno compiono i loro piccoli faticosi passi per uscire con
dignità dalla palude in cui la crisi e l’inettitudine politica li ha cacciati, sono
indotti a pensare che ai danni della pressione criminale e quella fiscale,
dell’avarizia bancaria e dell’Italia immobile, si sommano quelli indotti dal
rumoroso folklore antimafia specie quando prende la forma di atti giudiziari
buoni per placare le folle agitate più che per fare pulizia con metodo e
pazienza. Si, perché purtroppo ci sono anche alcune toghe che stravolgono
il loro delicato ruolo, dandolo per assolto quando percepiscono un’alta
partecipazione emotiva delle folle.
Purtroppo, invece, nel contrasto alla criminalità economica e mafiosa, i
fuochi d’artificio mediatici – chiunque sia ad accenderli – non servono a
rafforzare l’azione di amministratori, imprenditori, associazioni, Procure, ma
solo a produrre cortine fumogene sui ritardi accumulati, sulla discontinuità
dell’impegno, sulle promesse non mantenute, sulla pervicace improvvisazione
normativa. E, naturalmente, a raccattare ossessivamente consensi anziché
impegnarsi “semplicemente” a governare il Paese.

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ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA - 22/12/2013 (Corriere della Sera)

Troppa retorica e poca legalità

Credo che sia stato uno sbaglio da parte della stampa e dell’opinione pubblica non avere prestato la necessaria attenzione ai casi di Carolina Girasole e di Rosy Canale: famose entrambe per la loro attività contro la criminalità organizzata in Calabria ma nei giorni scorsi indagate in due inchieste della magistratura. La prima, infatti, come sindaco di Isola Capo Rizzuto fingeva a gran voce di combattere la ‘ndrangheta ma secondo l’accusa in realtà era stata eletta con i voti prestatile dal clan ‘ndranghetista Arena, che ha poi favorito consentendo che i malavitosi continuassero a utilizzare indisturbati i terreni agricoli confiscati loro. La seconda, Rosy Canale - fondatrice del movimento «Donne di San Luca», promotrice instancabile di iniziative a pro della legalità, scrittrice, attrice, collezionatrice di premi, comunemente descritta come «un’icona della lotta alla criminalità organizzata» - aveva per questo percepito cospicui finanziamenti dalle più impensabili fonti, che però - come è stato rivelato dalle intercettazioni telefoniche - ha impiegato regolarmente per uso personale: riempiendo armadi di borsette e vestiti, acquistando per se stessa e i suoi cari automobili, vasche da idromassaggi e spassi vari.

Pur nella loro ovvia patologia queste vicende non nascono però dal nulla. Esse sono rivelatrici di quel modo sterile e illusorio di fronteggiare la malavita e di gestirne ideologicamente il contrasto sociale, che da noi imperversa ormai da anni sotto il nome di «cultura della legalità». La quale, al dunque, si sostanzia in niente altro che in convegni e in tavole rotonde, in oceani di chiacchiere di Autorità varie giunte con voli di Stato su Punta Raisi per viaggi lampo in giornata, in compunte cronache dei tg regionali e in scolaresche precettate d’imperio ad ascoltare gli sproloqui di sindaci e assessori, ovvero ospitate in costose carnevalate come la «Nave della Legalità» organizzata dal ministero dell’Istruzione sulla rotta Napoli-Palermo. Tutte cose destinate a furoreggiare perché mettono insieme due tratti qui da noi sempre in auge. Da un lato la precettistica buonista - di nessun effetto pratico, naturalmente, ma che permette a chiunque di esibire il proprio impegno politicamente corretto (vedi i soldi che sulla suddetta abilissima Canale piovevano dalla Fondazione «Enel cuore», dal ministero della Gioventù, dal Consiglio regionale della Calabria, dalla Prefettura e da chissà quanti ancora); e dall’altro l’eterna retorica, il «discorso», l’«intervento», i «saluti», la parola alata (e ovviamente vuota), che ancora tanto successo, ahimè, sembrano riscuotere specialmente nel Mezzogiorno.

Le cui speranze invece - se ancora ce ne sono - stanno sicuramente altrove. E cioè nella pura e semplice applicazione della legge. Per esempio nell’azione di uomini come quel pugno di carabinieri della Compagnia di Scalea (è giusto che il Paese conosca almeno i nomi dei loro ufficiali - il capitano Vincenzo Falce e il colonnello Francesco Ferace - nonché quello del magistrato che li ha coordinati, il procuratore della Repubblica Giuseppe Borrelli), i quali pochi giorni fa, dopo anni di indagini, hanno smantellato la rete di dominio assoluto che la ‘ndrangheta aveva steso da tempo su quella cittadina del Cosentino. Dapprima facendo eleggere sindaco direttamente un proprio affiliato e quindi avendo mano libera per rubare su ogni appalto, taglieggiare chiunque, trafficare su qualunque cosa.

Nel discorso pubblico, alle tante parole dei professionisti della legalità va anteposta l’enfasi sull’azione della legge. E non è vero che perché questa abbia successo è necessaria l’esistenza di quelle. L’azione della legge, rapida, efficace, massiccia, è di per sé la maggiore fonte di cultura della legalità. Certamente la più convincente. La lotta alla criminalità organizzata - criminalità che insieme alla disoccupazione è la prima emergenza italiana - non ha bisogno di premi all’«antimafioso dell’anno» o dell’ennesimo comizio del Leoluca Orlando di turno. Ha bisogno di un maggior numero di magistrati bravi e coraggiosi, di più commissariati di polizia e di più stazioni di carabinieri, le quali non siano però nelle condizioni in cui si trova quella di Scalea, che i giornali descrivono stipata al primo piano di un vecchio condominio, la segnaletica «carabinieri» nascosta dietro un albero, con le porte sfasciate e riparate alla meglio dagli stessi militari nel tempo libero. Ha bisogno soprattutto che i ministri della Giustizia e dell’Interno invece di recarsi in pompa magna ai convegni a Palazzo dei Normanni, o a Ballarò o dove che sia, girino per la Calabria, per la Campania, per la Sicilia, vedendo di persona; parlando con le persone. Facendo sentire a tutti che lo Stato è presente. E - se non è dire troppo - pronto a colpire.

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NANDO DALLA CHIESA - 21/12/2013 (stampoantimafioso)

ll Circo  dell'antimafia

E allora facciamolo scoppiare, il bubbone. E parliamo del variopinto circo che vorrebbe prendere le bandiere dell’antimafia. La Calabria ci ha offerto di recente due casi inquietanti. Quello del sindaco antimafia di Isola di Capo Rizzuto Carolina Girasole, accusata dai magistrati di rapporti (da definire) con il potente clan degli Arena.
E quello di Rosy Canale, scrittrice e attrice teatrale, rappresentante delle “donne di San Luca”, che avrebbe intascato per privatissime finalità fondi pubblici ottenuti per contrastare la cultura mafiosa a San Luca. Ed è appunto da questo secondo caso che vorrei partire.
Rosy Canale è stata infatti di recente ospite del teatro Franco Parenti di Milano,
storicamente impegnato contro la mafia, sin da quando (allora si chiamava Pier
Lombardo) lo dirigeva Franco Parenti. Vi ha portato uno spettacolo autobiografico
musicato da Battiato, che apriva un ciclo di tre serate -‘ndrangheta, camorra, mafia- a
ciascuna delle quali mi era stato richiesto di intervenire. Non la conoscevo. Mi
bastavano la serietà del teatro e quel che di lei si diceva. Poiché il movimento
antimafia ha ancora una sua serietà, amici calabresi mi avevano tuttavia avvisato
all’ultimo momento dei dubbi che avevano sulla persona. Per questo ho evitato di
spendere anche una sola parola su di lei, riservandomi di giudicare sul campo. Non
c’è voluto molto. Al dibattito che precedeva lo spettacolo Malaluna ci siamo trovati
la sociologa Ombretta Ingrascì, Gianni Barbacetto e io. Sono bastati pochi minuti per
guardarci negli occhi con imbarazzo e poi per replicare: i bersagli di Rosy Canale
erano solo lo Stato (tutto) e il movimento antimafia (tutto). Quanto allo spettacolo,
aveva una sua forza suggestiva (Battiato…); ma anche una grande carica equivoca,
per chi masticasse qualcosa della materia. Per chi ne masticasse, appunto. Così il
pubblico milanese (benché non novizio) quella sera si è convinto di trovarsi davanti a
un’eroina dell’antimafia. Perché se qualcuno viene accreditato, senza mai un
controllo, da un intero circuito di giornalisti, premi, artisti o associazioni, la gente
alla fine è pronta a farne un’icona. E a farsi compartecipe di una truffa. Pochi giorni
dopo la stessa Rosy Canale avrebbe ricevuto il premio Borsellino (non promosso
dalla famiglia né da un’istituzione) alla presenza di alte autorità dell’antimafia.
E arrivo al salto di qualità. Che è avvenuto sulla rete. Dove qualche giorno dopo è
stato segnalato che l’indagata si era esibita al Parenti con il sottoscritto (solo io…),
omettendo il contesto. E siccome qualcuno ha precisato, qualcun altro è intervenuto
per ammonire, testualmente, “le cose si raccontano tutte e bene, andrebbe detto a un
certo signor Nando”. E qui si apre l’ulteriore, e più grottesco, capitolo. Chi è infatti
questo censore? E’ un killer pluriomicida, ex boss di ‘ndrangheta, diventato sette anni
fa collaboratore di giustizia, di nome Luigi Bonaventura. Per spiegare che cosa
intenda un mafioso quando dice “signor Nando”, e quanto questo sia tipico del
linguaggio della delegittimazione mafiosa, basta rileggersi il Falcone di “Cose di
Cosa nostra”. Ma il fatto è un altro. Questo boss che da me pretende chiarimenti, da
un lato protesta ovunque per non essere protetto dallo Stato (che lo lascerebbe in
pericolo) dall’altro gira l’Italia a far dibattiti sulla mafia, invitato da ineffabili
associazioni antimafia (come se ai tempi si fosse invitato Buscetta o Contorno…). Ed
è pure lo stesso che ha raccontato non ai magistrati ma a un giornale telematico che
la ‘ndrangheta aveva deciso di uccidere Giulio Cavalli.
Una rivelazione decisamente anomala, se solo si riflette sulle date. Il primo
spettacolo antimafia di Cavalli è infatti dell’autunno 2008, mentre Bonaventura si
pente nel 2007. Ora, fra tante centinaia di “pentiti”, non se ne è mai visto uno, uno
solo, che invece di fuggire rigorosamente dai clan che ha tradito, ne riceva poi
informazioni confidenziali sui delitti in cantiere. Informazioni anomale su progetti
omicidi rocamboleschi (camion che investono, overdose di droga) acquisite in modo
altrettanto rocambolesco (vennero in cinque nel 2011 offrendomi denaro per
raccontare…), che dovrebbero fare rizzare le antenne proprio come quando si sente
parlare Rosy Canale. Morale: il pentito sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre
Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la
scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali.
Che cosa sta succedendo? Qualcosa di ampio e di inquietante. Il movimento
antimafia si è infatti per fortuna molto allargato. Vi sono entrate persone generose ma
sprovviste di un’accettabile metro di misura, di un alfabeto culturale. Laddove negli
anni più duri la formazione antimafia ce la si faceva sul campo (e costava), ora ce la
si fa molto spesso nel mondo virtuale e la propria battaglia diventa un “mi piace”. Il
successo di Saviano, mentre dava un forte impulso al contrasto della camorra, ha
purtroppo incoraggiato anche una mitologia/martirologia della lotta alla mafia che è
l’esatto contrario di ciò per cui si sono battuti gli eroi (veri) dell’antimafia, sempre
attenti a tenere un bassissimo profilo sui rischi che correvano, a rassicurare i cittadini,
a imporre una distanza tra il proprio mondo e quello mafioso, anche quando
raccoglievano le confessioni dei pentiti più affidabili. I riflettori che essi invocavano
avevano -come oggi per Di Matteo- la funzione di “difendere”, non di “promuovere”.
Qui tutto si rovescia invece in un tripudio di soubrette e saltimbanchi, narcisi e
veterani senza storia (o dalla storia taroccata). Senza più alcuna remora morale. Al
punto che il pluriassassino trasformato in antimafioso doc esorta sprezzante il figlio
della vittima di mafia a dire la verità. Quando invece è arrivato il momento di dire
basta.

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GIOVAN BATTISTA TONA - 26/04/2013 (Repubblica - Palermo)

La differenza tra professionisti e carrieristi dell'antimafia

LA MAFIA, che nasceva dalla feudalità e ne assumeva la forma». Così Leonardo Sciascia condensava l'intuizione di don Pietro Ulloa, procuratore di Trapani sotto i Borboni, il più antico e il più moderno degli osservatori del fenomeno criminale che lo scrittore di Racalmuto racconta in «Storia della mafia».

Pubblicato nel 1972 su "La storia illustrata", diffuso rotocalco della Mondadori, questo saggio breve rivede la luce per inaugurare la nuova vita del glorioso marchio editoriale "Barion". Sciascia lo scrisse quando ancora in Sicilia convivevano - talvolta nelle stesse aree culturali - i dubbi circa la reale esistenza della mafia e la convinzione che ad essa era inutile opporre alcuna resistenza. Figlia dei paradossi isolani, la mafia si propone come una sofistica combinazione di infingimenti e di imposture, il cui risultato non sempre poteva essere inquadrato in categorie ma che certamente un acuto narratore poteva raccontare.

Il mafioso non può essere feudatario, perché nella scala sociale sta altrove, tuttavia può replicare la forma del potere feudale; e al contempo per comportarsi come il signorotto che non è, ne riesce a cogliere l'essenza più profonda, ne declina le caratteristiche nei più diversi contesti, ne impara a replicare, se del caso reinterpretandoli, i metodi di soggiogamento dell'ambiente che lo circonda. E così può essere e, quando vuole, non apparire; oppure può apparire quello che non è.

ciascia descrive la sapiente (seppur diabolica) abilità della mafia nel sintetizzare potere e mistificazione. Un'abilità che le ha consentito di attraversare nei secoli i più diversi assetti politici e le più varie rivoluzioni economiche, trovando sempre un'adeguata collocazione e delle congrue rendite; e che ancora oggi, nel mondo globalizzato e post-moderno, le offre interessanti prospettive di vita. Tornare a Sciascia significa provare a replicare un metodo. Ripartire dall'impegnoa raccontarea noi stessi la mafia come è, come concretamente si manifesta in un mondo che cambia, mettendosi in gioco con onestà intellettuale, senza impigrirsi su pregiudizi, senza farsi confondere nel prisma delle semplificazioni culturali, e, se necessario, riconoscendo la superiorità della buona letteratura sulla scienza e sul diritto.

Per fare l'antimafia bisogna sapere capire la mafia cos'è, dov'è e che fa: adesso, non ai tempi dei mafiosi che frattanto sono entrati nei libri di storia o nelle patrie galere.

Fare l'antimafia non è allora una cosa facile. È un impegno anzitutto culturale, profondo e laborioso, che non si può improvvisare per assecondare un'emozione, per apparire politicamente corretto o peggio perché se ne può cavare un utile.

Viviamo l'epoca del pressappoco e tutti siamo più o meno antimafia.

Persino gli imputati di associazione mafiosa ammettono che la mafia esiste ma dicono che loro non ne fanno parte; anzi sono d'accordo sul fatto che bisogna perseguirla.

Sciascia che additava nei professionisti dell'antimafia il rischio di un'altra élite capace di replicare la forma di un potere arbitrario occultato sotto nobili bandiere, oggi dovrebbe assistere ad un fenomeno molto esteso e molto più complesso di quello che, pure con grande anticipo, aveva intuito.

Nel suo famoso articolo del 10 gennaio 1987 aveva segnalato come esempio «attuale ed effettuale» dell'antimafia come strumento di potere incontrastato e incontrastabile la nomina di Paolo Borsellino a Procuratore di Marsala a preferenza di altri magistrati anche più anziani.

La storia di Borsellino (quella che Sciascia non poté scrivere) ha dimostrato la differenza tra i professionisti dell'antimafia e i carrieristi dell'antimafia; i primi, checché ne dicesse Sciascia, sono quelli che la mafia la contrastano veramente, con competenza e con sacrificio, i secondi, che talvolta appaiono professionisti ma hanno la quinta elementare in materia di antimafia, contrastano la mafia senza rischi e con vantaggio o addirittura chiacchierano, pontificano e basta così... Senza professionisti l'antimafia efficace non si può fare; poi bisogna sperare che questi non diventino carrieristi. Ma dovrebbero destare più preoccupazione i carrieristi senza professionalità, che pure sanno fare un'antimafia utile. A se stessi.

Autori

Emanuele Lauria

Paolo Mieli

Siciliainformazioni

Nando Dalla Chiesa

Ernesto Galli Della Loggia

Lionello Mancini

Giovanbattista Tona